Un XYZ file per Landon (parte I)

1.

Era una notte buia e tempestosa. Sì, buia lo era… tempestosa non nel senso “canonico” del termine. Andiamo con ordine. Il mio nome è Landon. Ted Landon. Faccio l’investigatore privato. Chicago è la mia città. E’ dura la vita dell’investigatore privato, qui a Chicago: quando ti capita un caso, ci pensi sempre. Ti svegli e pensi al caso. Mangi e pensi al caso. Cammini per la strada imboccando la trentacinquesima e pensi al caso. Svolti sulla cinquantacinquesima avenue e pensi al caso. E solo dopo aver camminato per circa due ore, col sudore che ti cola da sotto il cappello a tesa larga e ti impregna tutti gli abiti, fino a macchiare anche l’impermeabile alla Humprey Bogart che ti ostini ad indossare anche se si è in piena estate, solo dopo tutto questo, dico, ti rendi conto di esserti perso. E pensi: “Forse sarà il caso di cercare la strada di casa…”

Sì, proprio così.

Soltanto che stavolta era diverso. Mi ero perso dal mattino e oramai stavano calando le prime ombre della sera. Mi guardai intorno. Dai capannoni che mi circondavano potevo trovarmi soltanto in due posti: nella zona industriale o in quella del porto. Tendevo ad escludere quest’ultima. Vi avevo ficcato talmente tanto il naso che sicuramente qualcuno avrebbe già tentato di accopparmi e, be’, ero ancora vivo, quindi…

Fu quando mi trovai sulla banchina del porto e vidi ad un metro sotto ai miei piedi il mare, che mi resi conto di aver fatto un errore di valutazione. Sì, proprio così.

Quindi, l’unica cosa che potessi fare per non lasciarmi crivellare di colpi era il vecchio stratagemma dei duri di Chicago: camminare contro i muri.

Così feci.

-Ehi! Ciao, Ted!- salutò con giovialità un omone tarchiato la cui canottiera non propriamente fresca di bucato rivelava rudi tatuaggi che gli ricoprivano petto e braccia… per lo più cuoricini, fatine e Lilli e il Vagabondo. Lo riconobbi subito: si trattava di Jim “l’insidioso” un pesce piccolo, ma pericoloso, al soldo di uno dei pescecani più sanguinari che Chicago avesse mai avuto.

Lo salutai con un muto cenno del capo e proseguii. Lui rispose con un mezzo sorriso. Dopodichè si allontanò indifferente.

Okay, decisi. La tattica dello strisciare contro i muri era fallita! Sì, proprio così.

Prima che tutta la zona portuale diventasse troppo calda per me, scappai, molto poco dignitosamente a gambe levate.

Sapete, sarò un duro fra i più duri, ma anche io capisco che se sei defunto non ti interessa se ti hanno scritto sulla lapide “Ci teneva a defilarsi dignitosamente”. Sì, proprio così.

Passò ancora diverso tempo. Quando ormai la notte era illuminata soltanto dalla luce dei lampioni, tutti i negozi avevano le serrande abbassate e udivo soltanto lo scalpiccio dei miei passi risuonare solitario sull’asfalto, mi accorsi di uno strano rumore.

tictictic

Mi fermai in mezzo alla strada. Il rumore cessò. Ripresi a camminare.

tictictic

Mi fermai di nuovo. Il rumore non c’era più. Pensai così di essere io. Feci l’inventario dei miei indumenti. Non c’erano cerniere lampo. Non avevo con me le chiavi di casa ed avevo dimenticato a casa quelle dell’ufficio.

Mi strinsi nelle spalle e mi rimisi in marcia. Casa mia non era lontana…

tictictic

Mi voltai di scatto e quasi mi venne un colpo. Poi tirai un sospiro di sollievo.

Si trattava di un piccolo cane. Aveva il corpo del labrador con il muso allungato e annerito del pastore tedesco. Mi fissava dal basso in alto (be’, certamente non avrebbe potuto fare diversamente…) mostrandomi il bianco degli occhi. Orecchie basse. Coda fra le gambe. Muso leggermente reclinato da un lato. Pareva il gatto con gli stivali, quello dei cartoni animati, in un momento di depressione.

Il mio intuito acuito dalla dura vita della strada mi fece subito capire che si trattava di un randagio.

-Be’, sì sei carino. Adesso aria. Non sono il tuo padrone.

Detto questo, ripresi la mia strada.

tictictic

-Eh, no. Non ci siamo capiti! Io vado di qua e tu di là.

Il cane era lì dietro di me con l’atteggiamento più deprimente che io potessi immaginare.

Mi voltai.

tictictic

Decisi di ignorarlo.

tictictic

Per niente al mondo avrei ceduto al ricatto morale.

tictictic

Sapete cosa sia il libero arbitrio? Si tratta di quel dono che Dio ci ha concesso di poter scegliere in tutta libertà cosa fare e cosa non fare.

Quindi, liberamente, fissai il cane e dissi:

-Forza, Deppry. Vieni a casa con me.

Sì, proprio così.

2.

-EHI, CAPO! DI LA’ C’E’ UNO DEL GOVERNO! VUOLE PARLARE CON LEI!

Così, mi accolse Piccola, la mia segretaria. Sì, di nome faceva proprio Piccola. Piccola di nome, piccola di fatto, una dolce e tenera creatura cui la natura aveva voluto sopperire alla gracilità di fisico e di altezza con una voce amplificata, come se da bambina fosse stata svezzata a pane e megafono.

-Da cosa deduci che sia uno del governo, quello nel mio ufficio?

-DAL FATTO CHE MI ABBIA MOSTRATO UN DISTINTIVO DELL’FBI.

-Ottimo, Piccola. Frequentare quest’ufficio ti insegna i primi rudimenti del mestiere, alla fine.- replicai, infilando la porta che dava sul mio studio.

-E TU BELLISSIMA, CHI SEI?- urlò alle mie spalle Piccola. Dal raspare per terra e dal fatto che mi sentii spostare le gambe da 10 kg di cane, compresi che la dolce voce della mia segretaria aveva spaventato Deppry. Già.

Dalla notte scorsa continuava a seguirmi come un cagnolino. Be’, in fondo lo era…

Quindi anche quel mattino mi aveva seguito, uscendo con me di casa, lasciando mia moglie in un brodo di giuggiole. Sì, proprio così: era questo l’effetto che Deppry faceva sulle persone. Un modo di vivere radicalmente diverso dal mio, naturalmente, abituato com’ero di entrare in un posto qualsiasi e venire accolto dall’oramai consueto “sparisci deficiente”.

-Buongiorno, signor Landon!- mi salutò una voce cordiale.

“Ohibò, questa è un’esperienza nuova!” pensai.

Colto di sorpresa non riuscii a fare altro che emettere un grugnito di saluto.

-Bella la sua cagnetta!

-Anche lei!- sbottai, -Ma che avete tutti? Perché date della femmina a questo cane?

-Per il fatto che lo sia.

-Ohibò, è vero!

-Ma non ha guardato?

-Certi particolari mi mettono in imbarazzo.

-Lei è l’uomo che fa al caso mio. Poche domande. Bravo!

-E lei chi sarebbe?

-Agente Wolf Folder.

-Cosa vuole il Bureau da me? Conservo tutti gli scontrini, sa?

-Non si tratta di una visita fiscale. Appartengo ad un dipartimento molto particolare.

-Particolare… quanto?

-Ha notato qualcosa di strano la notte scorsa?

-Sì.

-Lo sapevo! Vuole dirmi cosa ha visto?

-Un cane dal pelo color miele e l’aria da seduta di psicoanalisi che mi seguiva.

A quelle parole l’agente Folder ammutolì. Sbiancò. Poi si riprese.

-No, scusi… forse non mi sono spiegato bene. Non ha notato nulla nei cieli di Chicago, la notte scorsa?

-A parte il fatto che erano bui?

-Certo, questo capita di notte…

-No, ho notato nulla. Be’ è stata una conversazione interessante, ma adesso dovrei mettermi al lavoro, se mi vuole scusare…- troncai indicando la porta.

Folder però, non colse il tacito invito a girare i tacchi e rimase lì, seduto sull’unica sedia di tutto lo studio. Segaligno, nel suo completo nero e gli occhiali da sole. Mi domandai cosa potesse vedere, dato che Piccola non aveva ancora provveduto, quel mattino ad alzare la serranda della finestra.

Mi sfilai l’impermeabile e lo appesi all’attaccapanni. Il cappello lo tenni in testa. Lo faccio sempre. Fa più “tipo duro”. Andai alla mia scrivania e mi si sedetti con la gamba sinistra. Misi una mano in tasca e tirai fuori un pacchetto.

-Permette?- dissi rivolto a Folder.

-Prego.- annuì lui.

Mi misi una liquiriza in bocca.

-Non sarà venuto sin qui da Washington per pormi amene domande sui cieli della mia città, agente.

Deppry abbaiò.

-Non ora bella. Sto lavorando.

-Giusto, Landon. A che cosa sta lavorando?

-Non sono autorizzato a dirlo.

-Se parlo io, lei è autorizzato ad ascoltare?

-Sì, proprio così.

Deppry abbaiò di nuovo.

-Zitta, bella.

-Dia prima retta al suo cane, Landon. Poi parleremo.

Mi voltai verso Deppry. Sì, avevo deciso di chiamarla così, per via della sensazione di depressione che mi destava. Si era sdraiata per terra, con le zampe anteriori ben davanti al muso, ancora alzato. Fra le zampe, spuntava una busta.

La raccolsi.

Doveva essere caduta dal tavolo.

Era indirizzata a me.

L’aprii e lessi.

(continua)

                                                                                                                            Andrea Savio