Time allergy – il mistero della torre invisibile (parte 2)

1

Mi rivolgo a te,

neofita dell’impossibile.

Cavalca le mie parole,

affronta i sentieri dell’immaginazione

finché l’onda della sete della scoperta

non finisca col travolgerti!

Con queste parole iniziava il foglio manoscritto. Abili mani lo presero e lo arrotolarono. Una goccia di cera colò rovente a sigillarne il contenuto. Agili dita che a stento riuscivano a contenere quell’irrequieta energia in esse contenuta, lo riposero in un piccolo scrigno di legno. Poi, una chiave lunga ed affusolata girò facendone scattare la serratura. Le venature della superficie dello scrigno in legno di ciliegio rosseggiarono alla luce del camerino in cui il mago stava preparandosi per la serata.

Poi tutto cambiò.

Il mago morì. Tutte le sue cose vennero prese e catalogate. Alcune finirono all’interno di mostre e musei a lui dedicati. Altre, per una ragione o per l’altra andarono perdute. Altre ancora finirono in mano agli appassionati del settore, ai collezionisti.

Il tempo passò inesorabile. La piccola scatola di legno si impolverò. Perse la lucentezza ed il logorio degli anni scurì, sino a nasconderle, le preziose venature che un tempo avevano rosseggiato fiere. La chiave che serviva a svelarne il segreto contenuto andò perduta chissà dove.

 

2.

Richard Donovan era un postino. Tutti i giorni percorreva la Main Street di Dreamland uno degli ultimi sobborghi verdì costruiti intorno alla Città: si trattava di un borgo di casette unifamiliari immerse nel verde a pochi passi dal lago su cui la Città si affacciava. Era una delle tante sfide che la municipalità aveva intrapreso per strappare prezioso terreno al deserto che separava ad ovest la metropoli dalla costa. Figurarsi che una delle prime località che vi si poteva trovare, viaggiando in quella direzione era una sorta di villaggio fantasma che da decenni aveva ormai perduto il proprio nome e attualmente sulle cartine era indicato come “Fine del mondo”.

Tornando al signor Donovan, stava completando il suo giro quando si fermò all’ultimo indirizzo di Main Street. La casa dei Martin. Lì doveva recapitare un pacco. Sbirciò il nome in cima all’indirizzo. Elizabeth Martin. Okay, Richie, si disse, molla quest’ultimo osso e ritorniamocene a casa!

Suonò al campanello. Non ci fu risposta.

Bussò alla porta. Nessuno aprì.

Tentò anche l’ingresso secondario. Nessuno anche da quella parte.

Donovan si stava innervosendo. Spostava continuamente il proprio peso da una gamba all’altra: era stata una lunga giornata, era stanco, aveva fame e sete e gli scappava pure la pipì.

Lascerò un avviso di mancato recapito e che la signora (o signorina) Elizabeth se lo venga a prendere in ufficio, il suo pacchetto! Così pensava, quando, dalla finestra della casa vicina, una vecchietta dallo sguardo lungo si affacciò.

-Giovanotto!- chiamò nella sua direzione, -Cerca i signori Martin?

Che domanda! Da chi crede che voglia farmi sentire bussando alla porta di casa Martin?

Evidentemente, il nostro signor Donovan non aveva mai sentito rivolgergli una domanda retorica, ma, a sua discolpa, bisogna ricordare delle urgenze biologiche che stavano assorbendo tutta la sua attenzione.

Alla fine Donovan e la sagace vecchietta si compresero e lei si offerse di ritirare il pacco per conto della signorina Elizabeth (di cui la donna non mancò di informare il nostro disperato signor postino di tutti i particolari della crescita e dell’ottimo rendimento scolastico di quella che lui, suo malgrado, dovette scoprire essere la figlia dei signori Martin).

 

3.

Un telefono squillò.

In una delle stanze del dormitorio maschile di Oxford, una mano si allungò uscendo dal cerchio di luce dorata che colorava la scrivania ed il libro aperto su di essa.

-Pronto?

-Sono Lizzie.

-Ehi, piccola!

-Scusa. So che da te è tardi.

-Per te ci sono sempre. Cosa succede?

-Sono appena tornata a casa e la nostra vicina mi ha consegnato un pacco arrivato con la posta per me.

-Cosa contiene il pacco?

-Una scatola di legno.

-E chi te la manda?

Perplessità dall’altra parte dell’apparecchio. E dell’oceano.

-Lizzie? Sei ancora lì?

-Sì… è che… è una faccenda strana...

-Strana… quanto?

-Abbastanza da spaventarmi.

-I tuoi dove sono?

-Papà è a Soapville per chiudere quell’affare… Mamma starà fuori casa fino a questa sera tardi. Deve terminare l’organizzazione del nuovo evento al museo…

Il ragazzo annuì in silenzio.

-Allora vengo lì.

-So che non ti piace fare questa cosa…

-Se non la facessi quando c’è un’emergenza…

-Fa’ presto, ti prego.

-Arrivo.

-Ti aspetto Mikey.- terminò lei in tono di supplica.

Mikey abbassò la cornetta. Per fortuna era solo nella sua stanza. Non doveva lasciare traccia della sua presenza. Stava per fare un viaggio intercontinentale. E non era il caso che il suo coinquilino scoprisse la sua piccola scappatella notturna. Era una di quelle cose che non si addicevano ai signorini di Oxford.

Nel buio, Mikey si cercò il polso e posò le dita sul quadrante del suo orologio. Spesso ci voleva qualche secondo… Quella sera sembrava tutto normale: lui respirava a meraviglia. Nessuna traccia di asma o di raffreddore. Per un momento temette che stavolta non capitasse nulla. Poi accadde. Fu un lampo: improvvisamente le narici gli pizzicarono.

Starnutì.

In un millesimo di secondo, Mike Archer, detto Mikey, non si trovava più nell’università di Oxford.

(continua)

Andrea Savio